Chi sogna o sta pianificando di mettersi in proprio, dovrebbe leggere questa guida in dieci puntate per evitare gli errori più classici dei neo-partita iva e neo-imprenditori. Non è una guida fiscale e neanche la guida delle furbate per lavorare meno o guadagnare dormendo.
Si tratta di una guida per scegliere consapevolmente di vivere e lavorare in autonomia, sfruttando uno degli atteggiamenti mentali che servono di più nel mettersi in proprio: imparare da chi ha una lunga esperienza. Io lavoro in proprio dal 2003, sono passata da diverse forme fiscali, dalle srl alle partite iva semplici e ho aperto, venduto e chiuso diverse attività, sempre in attivo. Siamo pochissimi a poterlo scrivere online, pubblicamente, con la sicurezza che nessuno dei nostri ex colleghi o collaboratori commenti “Ma come, e quel fallimento con lo sbuccia-banane a pedali dopo il quale sei scappata due anni in Cina?” oppure “Scusa ma non vivi a Dubai perché ti stava inseguendo l’Agenzia delle Entrate?” (quest’ultima l’ho letta davvero sotto il post di uno che fa consulenza fiscale online!).
Così, seguendo alcune menti brillanti per il corso Cambio vita, mi reinvento, mi sono accorta che molto spesso ci sono persone con ottime idee ma che mancano delle basi per fare impresa o anche solo per destreggiarsi in alcuni ambiti indispensabili nei primi anni. Potevo allora non mettere a punto una guida con le loro domande più frequenti e la mia esperienza di quasi vent’anni? Eccola qui. In fondo trovate tutte le puntate, attivate man mano che vengono pubblicate nei prossimi giorni. Il vantaggio per me è che così quando faccio il corso mi posso concentrare su aspetti più profondi del creare un lavoro nutriente, specialmente per chi vuole mettersi in proprio!
È definito “autonomo” il lavoro del prestatore di un’opera o di un servizio che, con discrezionalità circa le modalità di svolgimento dell’attività, compie un incarico con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente (Articolo. 2222 del Codice Civile).
Partiamo dal pensiero giusto per mettersi in proprio
Diversi anni fa chiacchieravo con due amiche, entrambe con lavori dipendenti e molto qualificati. Venne fuori l’idea di aprire insieme un’attività editoriale. Non so come successe ma nel giro di mezz’ora io parlavo, inascoltata, di fare un business plan e loro due discutevano del nome da dare all’attività. Erano rapite dalle idee del colore del logo, con gli occhi brillanti di entusiasmo. Nonostante i miei sforzi, non riuscii a spiegare che il nome e il logo non si scelgono per prima cosa. E nemmeno si scelgono al tavolo del lungomare durante l’aperitivo, a meno che non sia invitato Philip Kotler, il genio del marketing autore di Brand Activism.
A un certo punto ricordo che mi fu tutto chiaro. Sorseggiavo il mio aperitivo e le osservavo mentre disegnavano fiori su un tovagliolo, probabilmente immaginando che un giorno l’avrebbero incorniciato nella sede della società. L’entusiasmo proseguì per qualche giorno ancora, mi arrivarono una decina di mail in cui facevano liste di cose assurde, mi ricordo ancora uno dei punti che mi fece ridere di gusto “Sempre fiori bianchi nella hall per richiamare il logo”. Il logo?! Di nuovo?! E quale hall di quale ufficio se non avevamo nemmeno verificato la fattibilità?!
Questo logo poi sembrava essere importantissimo sebbene “branding” non dicesse nulla e non c’era la minima idea di cosa fosse una campagna aggregata o un ROI. Sono molto poetiche e le adoro per questo. Non mi vedevano come l’unica del gruppo con esperienza, ma come la guastafeste che non partecipava all’entusiasmo per il logo a fiorellini con taaaaanti significati simbolici.
Per fortuna l’idea si esaurì da sé e loro migliorarono i rispettivi lavori, ben lontane dal web, restando ottime e felici dipendenti. Ho il loro permesso per raccontarla ridendoci sopra.
Mettersi in proprio non può essere la fuga dal lavoro da dipendente
Mettersi in proprio per queste amiche era solo un sogno di evasione da un lavoro insoddisfacente e lo volevano affrontare senza nessuna capacità di fare impresa, anzi, senza nemmeno pensare di acquisirla. Si tratta infatti del sogno di chiunque viva una pessima esperienza lavorativa. Sbagliando, perché mettersi in proprio non vuol dire liberarsi dalla frustrazione ma essere in grado di ribaltarla a proprio vantaggio, o surfarci sopra, o gestirla, o inventarsi qualcosa che funzioni perché se non funziona le conseguenze sono tutte tue. Non arriva più lo stipendio a fine mese “qualunque cosa tu faccia e comunque ti senta”.
Per mettersi in proprio, bisogna aver voglia di creare un prodotto, seguirlo e prendersi la responsabilità di tutte le fasi, anche quando va male. A volte il prodotto siamo noi stessi ed è ancora più difficile: è il caso di consulenti, agenti, medici in libera professione, avvocati, scrittori, giornalisti e persino tate.
Quando viene un’idea, per prima cosa si verifica se c’è mercato, se è realizzabile, con quali costi di produzione, con quali strutture, che distribuzione serve e si fa un primo business plan di massima. Il logo verrà molto più tardi e non si chiama nemmeno logo (anche a questo dedicherò un intero post, che trovi nella lista in fondo).
Foto Brooke Cagle on Unsplash
L’atteggiamento sbagliato per mettersi in proprio
Anni fa, una conoscente mi disse questa frase ridendo: “Non so come fai a lavorare concentrata quando sei da sola, io passerei le giornate a vedere i video su YouTube e girare sui social”. Pensai che fosse un’affermazione assurda, visto che se perdo tempo non guadagno. Ma non calcolavo che la gente riesce a essere spericolata nel mettersi in proprio.
Tempo dopo infatti mi annunciò di essersi licenziata, aver aperto una partita iva senza avere ancora dei clienti… e a me tornò in mente quella frase. Mi suonarono numerosi campanelli d’allarme: non ha capacità imprenditoriali, non ha cultura imprenditoriale, non sa lavorare per obiettivi, si distrae facilmente, non sa cosa sia una pianificazione, è abituata a lavorare poco e ricevere uno stipendio medio che reputa però insufficiente, ha un mutuo e una serie di rate (quindi una gestione molto migliorabile del budget). Insomma un disastro annunciato.
E infatti. Finì prevedibilmente in un fiasco perché, oltre a non avere capacità imprenditoriali e a non aver nemmeno pensato di svilupparle, fece un errore dietro l’altro, partendo proprio dai più banali fino ad alcuni che a me onestamente non sarebbero nemmeno venuti in mente!
La storia è finita bene, oggi è di nuovo dipendente ma sta ancora pagando le palate di tasse arretrate per gli anni da autonoma.
La differenza tra spirito imprenditoriale e cultura imprenditoriale.
Dal cantante di strada fino all’industriale, passando per la sarta e la società di comunicazione, sono indispensabili due caratteristiche per mettersi in proprio: spirito imprenditoriale e cultura d’impresa. Lo spirito imprenditoriale è quello che ti fa rischiare, che ti porta verso l’innovazione, nuovi progetti, nuove idee. La cultura d’impresa è quella che ti evita di mettere in cantiere idee fallimentari che ti facciano finire sotto un ponte in compagnia dei debiti.
Lo spirito imprenditoriale senza cultura del fare impresa, è un disastro perché porta a decisioni avventate sulla base di sensazioni e senza alcun calcolo, proiezione, verifica… si parte e si vede quel che succede, o ancora peggio ci si aspetta dei risultati improbabili per i tuoi mezzi. La situazione contraria invece è quella tipica di molti eredi di piccole imprese: ereditano i muri, le competenze ma poi falliscono nel non innovarsi o nel considerare l’azienda solo un’entità che produce soldi all’infinito, senza curarla. La cosa positiva è che si possono coltivare entrambe e vale la pena di farlo se si desidera mettersi in proprio. Anche solo per scoprire che per noi magari è più faticoso che appagante …benedicendo il lavoro dipendente!
Anche io avevo dei limiti all’inizio. Per esempio ho spirito imprenditoriale, ma non avevo cultura imprenditoriale. In più ho fatto una facoltà umanistica, l’ideale per far fallire un’impresa. La parte che mi mancava l’ho coltivata con letture, studio, corsi dal vivo e frequentando imprenditori molto capaci.
Che tipo di dipendente sono?
Per prima cosa, prima di mettersi in proprio, chiediamoci: che tipo di dipendente sono? Cerchiamo di puntare sulla sincerità, tanto non ci sente nessuno se diciamo qualcosa di poco edificante.
Io per esempio prendo l’ultimo lavoro da dipendente che ho fatto. Lavoravo anche se l’amministratore delegato se ne andava in vacanza per una settimana. Altri responsabili di progetto passavano la giornata tra Tinder e i messaggi con gli amici, facevano pause caffé eterne e cercavano di recuperare in una giornata prima del ritorno (male e senza successo). Quindi io non ho problemi di autodisciplina.
Altro esempio. Se avevo qualche problema con un collega, non andavo a parlarne con i colleghi amici lamentandomi o diffamandolo, anche con problemi gravi. Cercavo di risolvere con il diretto interessato e, se la cosa non era proprio possibile e soprattutto se stava creando una perdita all’azienda, trovavo un modo diplomatico e discreto (sottolineo discreto) per parlarne con l’amministratore delegato. Se stai pensando “è da infami”, devi sviluppare molto la tua cultura imprenditoriale. Un’azienda, anche una piccola impresa artigianale, esiste per creare profitti, non per stipendiare dei boicottatori. Se lo fa, affonda e tu con lei.
Mettersi in proprio lavorando prima sui propri limiti
Ma non voglio farmi l’altarino, come dice Franca Leosini. Me la vedo davanti,”Lei si sta facendo l’altarino eh eh eh!”. Quando mi sono chiesta che tipo di dipendente fossi, ho fatto un elenco di tutte le caratteristiche per cui ero stata pessima dal punto di vista del datore di lavoro. Occhio qui: dal punto di vista del datore di lavoro, perché dal nostro siamo sempre più giustificabili. Siamo sempre lì a subire delle ingiustizie, no?
Ho tirato fuori il mio caso peggiore dal punto di vista del datore di lavoro. Una volta mi sono licenziata su due piedi, senza preavviso, di venerdì, in mezzo a un numero di progetti aperti che coordinavo solo io. Dal mio punto di vista era uno schiaffo morale nemmeno sufficiente per tre lunghi anni di contratti precari che terminavano e ricominciavano a sorpresa, continue richieste di trasferte non retribuite e straordinari gratis in funzione della carriera. Dal punto di vista del datore di lavoro, invece, non mi ero mai lamentata della situazione e credeva che avrebbe potuto sfruttarmi fino a che dimostravo di non notarlo.
Se questa situazione l’avessi affrontata con intelligenza imprenditoriale, ovvero confrontandomi con lui, l’imprenditore avrebbe fatto quello che ha fatto davanti alle dimissioni: offrirmi un contratto a tempo indeterminato per una cifra più alta. Io invece avevo già firmato con un’altra azienda ed ero anche orgogliosa del mio gesto (quanta strada ho fatto da allora!).
Foto Cookie the Pom on Unsplash
Mettersi in proprio deve comprendere il formarsi come imprenditore
Da questo mio comportamento non corretto in quell’occasione, ho tirato fuori: la necessità di lavorare sulle mie capacità di contrattazione invece di spendermi ad architettare vendette, manco fossi una degli Avengers; la necessità di maggiore attenzione alla percezione del mio valore da parte di altri/azienda (io credevo che chiedendo condizioni migliori mi avrebbero sostituita, invece mi avrebbero offerto un contratto migliore); la necessità di essere in grado di intercettare i segnali di insoddisfazione dei collaboratori perché potevano agire come me e crearmi un danno; la necessità di meno stress e differenti prospettive perché gli schiaffi morali sono inutili (Non è vero, alcuni sono un godimento anche a distanza di anni, bisogna essere onesti!).
Mettendomi in proprio, anzi un bel po’ prima, ho affrontato libri e frequentato altri imprenditori. Ho ascoltato con avidità. Ho capito molto e l’ho messo in pratica. Lo stesso procedimento l’ho messo in pratica per altri aspetti che mi avrebbero auto-boicottata. Finora è andata bene, a volte benissimo e altre ho chiuso in attivo prima che arrivasse un disastro. Continuo a vantarmi di aver venduto in attivo un’attività che non sarebbe sopravvissuta alla crisi del 2008, perché io la crisi l’avevo vista arrivare da lontano. Ma non l’avrei mai nemmeno intuito senza formazione.
Tutte le prossime puntate dei miei consigli per chi sogna o ha deciso di mettersi in proprio:
1 – La matematica e il regime fiscale
2 – I servizi fondamentali
3 – Il primo anno
4 – La pianificazione
5 – Gli accantonamenti
6 – I due budget fondamentali dall’inizio
7 – I due investimenti fondamentali dall’inizio
8 – Chi può fregarsene della promozione
9 – Il nome e logo giusti
10 – La cosa molto importante che non puoi rimandare
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Credits: Prima immagine in alto: Helena Lopes on Unsplash
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