Impazzano le mode anche nell’autoproduzione, con l’effetto di far dire “no autoproduzione” a chi si avvicina a questa eco-filosofia di vita.
Anche nell’autoproduzione nascono nuovi guru, si estremizzano i vecchi e, nella foga di essere più estremi e più originali degli altri (non più sostenibili!) vanno a ricercare quello che ancora non ha autoprodotto nessuno, l’autoproduzione delle autoproduzioni, quello per cui diventare virali. Sì, perché poi il fine è questo: diventare virali, nella speranza di pubblicare un libro, andare in tv, diventare qualcuno partendo dagli scarti della cucina.
Falliscono perché è l’intento sbagliato, persino nel mondo della comunicazione funziona così. Meglio sarebbe se facessero qualcosa che li appassiona davvero, lì sarebbero bravissimi e darebbero molto al mondo. Questo sistema, però, ha fatto nascere alcune brutture su cui rido amabilmente o sgrano gli occhi stupita, anche quest’ultima mi piace molto perché ormai venir stupiti è raro.
Ogni tanto mi capita anche di incontrare qualche lettore convinto che io autoproduca tutto e viva d’aria. Una volta che scopre che non è così, ci resta malissimo, mi cancella dalla sua vita e si ritiene in diritto, in quanto tradito nei suoi sogni, di non autoprodurre più alcunché. A costoro vorrei svelare un segreto millenario: vivono in cerca della falla nel sistema per giustificarsi nel non fare qualcosa. Il che è un grande problema esistenziale, per fortuna solo per la loro esistenza.
Da par mio, fin dall’inizio ho sempre detto che è impossibile autoprodurre tutto, che non vale la pena di tornare a una vita rudimentale facendo tutto da sé a mano e che non è questo l’intento del pensiero della Décroissance (non uso il francese per darmi un tono ma proprio perché il movimento francese è profondamente diverso da quello spignattamento senza costrutto che è il movimento italiano, peraltro con note di maschilismo così becero che le noterebbe anche Beppe Grillo).
Dal mio punto di vista, mettere da parte l’evoluzione e la civiltà nelle loro accezioni migliori è sbagliato. L’esempio che faccio sempre è quello della lavatrice. Le lavandaie facevano una vita infame, sviluppavano l’artrite a trent’anni e morivano in media ancora giovani. Lavare i panni a mano non sarà mai per nessuno un lavoro riposante e una meditazione attiva. Forse una volta in cui lavi con cura il tuo maglione preferito. Ma non quando devi lavare a mano tutta la biancheria della famiglia, lenzuola comprese. Io ammiro chi lo faceva, ci si spacca le braccia e le mani. L’unica volta che mi sono trovata nella necessità di lavare i panni a mano e non poter uscire di casa a causa di una nevicata eccezionale, ho optato per usare tutte le lenzuola che avevo, comprese quelle della dote ricamate a mano che si rovinano già mentre le dispieghi. All’arrivo della nuova lavatrice, ho lavato tutto.
Tra queste mode recenti, ce ne sono dieci che sicuramente non mi riguarderanno mai come scelta. Potrebbero riguardarmi forse se venissi catapultata in un paese del terzo mondo e costretta a sopravvivere. Sono le mie scelte personali di non-autoproduzione, mi piacerebbe poi sentire le vostre!
1. L’autoproduzione della carta igienica
Ebbene sì, una delle ultime mode è l’autoproduzione della carta igienica. Badate bene, non stiamo parlando di qualcosa di sostitutivo come le pagine del giornale dei film neorealisti italiani. Non parlo nemmeno della foglia d’albero del provetto escursionista immerso nel folto della vegetazione. Parlo proprio di gente a casa propria che viene colta da questa idea geniale di utilizzare dei pezzi di stoffa riciclata che poi verrà rilavata invece di essere buttata.
Se vi sembra già orrido, pensate a un cesto della biancheria con cotali depositi, magari insieme alle tovaglie e tovaglioli, già che ci siamo.
Avrei una soluzione alternativa. In una casa che ho condiviso a Londra, da studentessa, c’era questo cartello sopra il rotolo: “If you need more than 5, you need a shower” (se hai bisogno più di cinque strappi, hai bisogno di una doccia). Il concetto mi trova assolutamente d’accordo. Siamo in Italia, c’è questa meravigliosa cosa che si chiama bidet, usiamola! In assenza, una doccia è ecologicamente migliore. Primo, si consuma meno acqua che a fare una lavatrice di panni di letame. Secondo, i batteri fecali sono tra i peggiori.
Non torniamo indietro, siamo già in un paese con delle precarietà nel settore. In Italia, per esempio, non è ancora passato il concetto molto importante che prima di tirare lo sciacquone bisogna chiudere la tavoletta del wc. Il motivo è che l’acqua dello sciacquone produce delle micro-gocce con cariche batteriche che vanno in giro, per esempio sugli spazzolini da denti. Il costo ecologico degli antibiotici è molto peggiore di quello della produzione di carta igienica, magari con carta riciclata.
Tra la carta e l’acqua: l’acqua è meglio, meglio lavarsi. Ora non voglio dilungarmi sull’argomento del tipo di tazza e di accessori, non avrei mai pensato di dover affrontare l’argomento escatologico sul mio sito, però necessitava. Semmai date un’occhiata ai Giapponesi con le loro tazze tecnologiche per il lavaggio e asciugatura. Non certo agli indiani, osannati da questi “autoproduttori” di stracci per popò, che son lì con la brocca dell’acqua e il panno di cotone a contorcersi e coltivarsi poi quelle cinquemila malattie endemiche in India, tipo l’escherichia coli. Bravissimi per lo yoga e la cucina che adoro, ma privilegerei l’igiene nipponica o quella italiana, almeno in questo settore.
2. L’autoproduzione in cui bisogna unire il bicarbonato all’aceto
Lo ripeto da quanto? Vent’anni? A meno che non dobbiamo sturare il lavello ingorgato, bicarbonato e aceto non vanno usati insieme. Pena l’inefficacia del composto. E se vi pare che aceto più bicarbonato puliscano bene, allora era già pulito e potevate usare con più efficacia il solo bicarbonato.
Non siete convinti? Rispolverate il libro di chimica del liceo o chiedete a un chimico. Bicarbonato e acido acetico insieme fanno acqua salata con una leggera carbonazione iniziale che poi scompare subito, quel frizzino che piace tanto a chi mischia aceto e bicarbonato. La carbonazione è utile per sgorgare, per nient’altro. A meno che abbiate qualcosa che va pulito con acqua salata gassata al momento, allora unite pure bicarbonato e aceto, è la vostra formula ideale.
Per tutti noi normali, o si usa il bicarbonato o si usa l’aceto. Personalmente ne faccio usi diversi e l’aceto lo autoproduco da kombucha.
3. L’autoproduzione del dentifricio con il bicarbonato
Anche qui ben due motivi validi per non farlo. Il primo è che il retrogusto o il gusto principale sarà sempre di pesce marcio in un cassonetto d’agosto. Il gusto tipico del bicarbonato più acqua, insomma. Potete mettere tutti gli oli essenziali del pianeta e saprà sempre di balena in decomposizione.
Il secondo motivo è importante: spazzolare i denti con il bicarbonato rovina lo smalto. Non lo dico io ma tutti i dentisti, anche quelli indiani che cavano i denti per strada. Non spazzolate i denti con il bicarbonato!
No, nemmeno con bicarbonato e limone, guarda la mia espressione esasperata oltre lo schermo. Cos’è il limone? Acido citrico. Ritorna al punto 2 e sostituisci acido citrico con aceto, vale la stessa cosa. Acido più base si annullano a vicenda.
4. L’autoproduzione in cucina riutilizzando gli scarti dell’estrattore
Ci ho provato più volte. Aveva ingolosito anche noi la possibilità di dividere il succo dalla fibra e riutilizzare la fibra in fantastici dolcetti e polpette gustose. Con i dolcetti è andata così. Ho preso gli scarti dell’estrattore, ho messo datteri, cacao e cocco, frullato tutto insieme e fatto le palline, poi le ho passate nella granola di cocco. Ho contribuito all’inquinamento di mari e cieli per far arrivare questi alimenti in Italia, ma vuoi mettere il guadagno di riutilizzare gli scarti di due gambi di sedano, un’arancia e una carota? Inestimabili! Una volta serviti i deliziosi dolcetti, la mia metà ha strabuzzato gli occhi ed esclamato con la bocca impastata: “Ma che caffo fono??? Polpette di pellecchie?!” poi non so il seguito perché è andato in bagno.
Il secondo tentativo l’ho fatto con sole verdure, i dolci era chiaro che non riuscivano e bisognava comunque disboscare l’Amazzonia per farli. Ho quindi preso lo scarto di un estratto di carote, sedano e spinaci per fare le gustose polpette indicate dalla ricetta della famosa foodblogger, osannate da tutto il suo seguito a suon di gridolini estatici in digitale. Insaporite, cosparse di semi di sesamo e papavero, cotte in forno ed eccole pronte per il verdetto. Non avevo avvisato la mia metà dell’esperimento perché preferisco che non ci sia l’effetto palliativo, magari che si convinca che è buono solo per cortesia e pietà.
All’assaggio, si è prodotto in esclamazioni di giubilio poco comprensibili perché aveva la bocca piena e si rifiutava di inghiottire, ma una volta tornato dal bagno mi ha chiesto se avevo cucinato il sacchetto dell’umido e mi ha apertamente minacciata con “se vai avanti a cucinare la spazzatura ti porto dal neurologo!”. E niente, gli scarti dell’estrattore li metto nel compost in giardino oppure mi faccio un frullato che è molto meglio. Che senso ha, poi, togliere la fibra per mangiarla da un’altra parte?
[Postilla dopo le chiacchiere nei commenti: ho un estrattore che estrae tutto e lascia la fibra assolutamente asciutta, potrebbe sembrare essiccata, il Green Star GS 2000. Il problema quindi è solo mio e di chi utilizza questi masticatori che estraggono proprio tutto]
5. Autoproduzione di mobili con i pallet
Sarò lapidaria perché è solo questione di gusti, voi fateli pure. I vostri sono bellissimi. Ma. Io poniamo che vado in un locale Eco-bio-vegan-sciamanico-chic e mi devo sedere sui pallet cuscinati perché non hanno comprato l’arredo per l’esterno. Allora passo la serata a riempirmi le gambe di schegge e sto comoda come sul pavimento. Signori, a questo punto voglio pagare con le banconote del Monopoli. Divano finto e pagamento finto, mi pare equo.
A casa mia non li userò mai perché sono fatti con un legno pessimo, di scarto, non piallato e quindi pieno di schegge, non stagionato e quindi orrendo una volta pitturato. In giardino o nell’orto men che meno perché è un legno che marcisce subito a contatto con l’umidità del terriccio.
Ma se uno ha bisogno? Ci sono soluzioni alternative. In diversi traslochi ho dovuto cambiare la struttura del letto. Intanto che arrivava la nuova ho steso a terra un tappeto e ci ho appoggiato le reti a doghe, su quelle ho messo il materasso. Però, ripeto, questa è una questione personale mia, l’articolo è sulle autoproduzioni che non farò mai io, non tu!
La questione dei locali chic con i pallet però la volevo dire perché non se ne può più.
6. Lo zero-waste e nowaste estremo – tovaglioli e posate
Non starò a citarvi la guru americana dello zero waste che poi va in giro per il mondo a parlare di zero waste usando l’aereo. Non usa la forchetta compostabile perché è usa-e-getta, ma venti voli aerei sì. Il senso è solo quello di costruire un personaggio su una nuova moda, non di diffondere consapevolezza. Ma a quanto pare ha avuto successo tra gli estremisti, i quali adesso pretendono di utilizzare il loro tovagliolo e posate anche al ristorante. Anche qui il problema è duplice.
Primo problema sono i regolamenti di igiene pubblica in Italia, che per quanto disattesi da alcuni ci sono e ci rendono uno dei paesi con i locali più puliti. Tirare fuori il proprio tovagliolo e posate può mettere in crisi il ristoratore perché, se entrasse in quel momento un controllo, dovrebbe spiegare la presenza di stoviglie non del ristorante e quindi non igienizzate con i criteri richiesti. Secondo, è un sistema molto stupido che serve solo ad attirare l’attenzione su di sé e a diffondere l’antipatia per l’ecologia al resto dei presenti.
In Italia è raro che le posate siano usa e getta e i tovaglioli di carta, direi che in quel raro caso si può fare un’eccezione e al limite chiedere al gestore se sono compostabili (spesso lo sono e per quanto riguarda il piadinaro sulla statale… potete sempre scegliere di non fermarvi da chi non usa stoviglie compostabili). A me è capitato raramente di trovare posate usa-e-getta, di solito trovo stoviglie lavabili, così come tovaglioli e bottiglie di vetro. La bottiglia di plastica di solito è una questione del piadinaro sopra e si può anche passare oltre. Io per esempio in estate vado in tre piadinerie che fanno anche vegan e tutti sono d’accordo sulla borraccia personale invece di comprare la bottiglietta di plastica. Loro però devono vendere quella, non si può mettere in un chiosco anche il depuratore per servire acqua sfusa: è un’asporto, te la puoi portare tu in borraccia.
Con un po’ di elasticità e gentilezza, si convertono in molti a pratiche più ecosostenibili. Mettendoli invece in crisi con la recitazione da prima donna che tira fuori le sue posate e tovagliolo pretendendo di usarle, si fanno compiere solo dei passi indietro a chi magari stava cercando di cambiare qualcosa. E certo, sì, si ottengono quei cinque minuti di attenzione che appagano l’ego, più un post su Facebook per lisciarselo meglio, in cui si spiega alle amiche autoproduttrici di carta igienica che cattivone è stato il ristoratore che non voleva farmi usare le mie posate. #maperpiacere
7. La pacciamatura con i giornali vecchi
Si chiama in vari modi, tra cui “lasagna gardening“. All’inizio sembra funzionare, perché i nuovi strati di terriccio non sono invasi dalle infestanti, il terriccio è soffice perché appena messo. Alla seconda stagione, crescerà poco e male perché la carta di giornale o il cartone ci mette dieci anni per decomporsi e nel frattempo ostacola tutto il lavoro dei batteri aerobi e anaerobi che rendono fertile il terreno. In molti casi evita il drenaggio ottimale dell’acqua piovana, questa stagna e iniziano a formarsi delle muffe e dei funghi che alla lunga renderanno l’aiuola o l’orto un grosso problema da gestire. Ah, le infestanti ci saranno lo stesso, perché la maggior parte si propaga per semi per via aerea, non dagli infiniti abissi sotterranei del pianeta.
8. L’autoproduzione di passata di pomodoro e di saponi
A me non piace fare la passata di pomodoro, lo trovo un lavoro sfiancante, noioso, uno di quei lavori che non mi appaga per nulla, quindi non lo faccio. Ne usiamo così poca che o la compro da produttori bio controllati, oppure la scambio con qualche mia autoproduzione, spesso con le marmellate che invece mi piace molto fare.
I saponi anche, faccio le candele ma non i saponi. Li ho fatti un paio di volte e non mi entusiasma né il procedimento a freddo né a caldo. Non so perché, ma è un lavoro che non mi appaga e non uso così tanti saponi solidi. Comunque sono fortunata perché a tanti autoproduttori piace fare il sapone, quindi anche in questo caso scambio e baratto con due amiche che sono appassionatissime della materia.
Bisogna riscoprire anche la socialità: uno che fa tutto da solo, si stanca presto. Se io faccio qualcosa e tu qualcos’altro, nasce un circolo virtuoso e abbiamo anche il tempo di imparare, conoscere e scambiare informazioni, idee. Questa è la vera decrescita.
9. Cucinare con la lavastoviglie e lavarci anche i panni
Due mode deprecabili per igiene e caos creato. Sul cucinare con la lavastoviglie ci sono addirittura dei libri. In pratica: si mette il cibo in un sacchetto di plastica dell’Ikea, sacchetto che non è stato pensato per metterci alimenti caldi e c’è anche scritto sulla confezione, dopo di che si infila questa genialata in lavastoviglie insieme ai piatti e al detersivo. Secondo gli autori di questa pratica, con il calore del lavaggio si cucineranno i cibi. Io invece non ho nemmeno voglia di fare il conto delle controindicazioni: la plastica da non riscaldare che si riscalda e quindi qualcosa andrà nel cibo, il cibo cotto a soli 50°C per due ore con il ciclo ecologico o a 70°C per trenta minuti con il super-rapido, chissà che prelibatezza. Il detersivo e lo sporco degli altri piatti che rotea ovunque e, constatatelo da sole, quei sacchetti non sono a tenuta stagna. Che bella minestra!
Ma c’è di più, tra questi novelli chef e gourmet della lavastoviglie, c’è chi suggerisce di infilarci anche i panni, naturalmente con il detersivo della lavastoviglie. Io quindi consiglio di metterci i pile, qugli indumenti che non attirano prorio i pelucchi e non hanno bisogno di essere strizzati dalla centrifuga della lavatrice. Vi avanza spazio tra tazze e bicchieri? Le mutande! E già che ci siamo anche la carta igienica autoprodotta.
10. L’autoproduzione della bugia colossale: dire che autoproduco tutto.
Se metà degli italiani vivesse come me, avremmo risolto i problemi di inquinamento. E io non autoproduco tutto, anzi. Compro da artigiani, che vuol dire convertire facilmente il mio lavoro in oggetti belli che mi servono. Ne ho già ampiamente parlato nel libro L’autoproduzione è la vera rivoluzione: chi dice di autoprodurre tutto mente. Sono solo scoop giornalistici e nel libro ho riportato diversi esempi concreti di persone che dicevano di autoprodurre tutto e invece no, sono solo persone in cerca di attenzione per le loro pubblicazioni, corsi e varie. Il che distoglie l’attenzione dalla questione principale: autoprodurre serve per ridurre l’impatto sull’ambiente, non per essere la regina del Faccio-tutto-io.
Ha senso autoprodurre quello che troverei solo confezionato nella plastica. Ha senso autoprodurre se voglio una vita più lenta, appagante e non correre tutto il giorno per lavorare e comprare quello che mi dicono altri che devo avere. In questo senso, ha una logica sia la pasta che mi autoproduco io in casa con le farine locali, sia la pasta che mi vende il produttore artigianale, fatta con farine locali.
So che con la sincerità non sarò mai seguita da orde di infoiati dell’autoproduzione che hanno la necessità di avere un guru da ammirare e che gli prospetti una vita facilissima senza comprare più nulla. Mi interessa? No. Passino pure la loro giornata a tagliare strisce di stoffa per farsi la loro bomba batterica di carta igienica autoprodotta e a non sapere come funziona l’economia o quanto si può cambiare davvero in questo mondo facendo tutti un po’, invece che uno solo moltissimo.
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