Il minimalismo è una scelta per tutti? Il minimalismo funziona per tutte le categorie di oggetti della nostra vita? Mi sono posta queste domande in diverse occasioni, cercando di capire se il minimalismo sia una scelta così universale e così rigenerante.
Una cosa non mi piace proprio della parola “minimalismo”: la deviazione dal suo significato originario. Ultimamente sembra che fare la lista delle rinunce sia di gran lunga più importante che vivere bene. “Io ho rinunciato alla palestra, vado a correre”, “io ho rinunciato ad avere tanti vestiti, meglio tre ma molto belli”. Queste affermazioni andrebbero bene se riferite a un’unica categoria di oggetti o attività, a un paio, ad alcune al massimo. Se, soprattutto, queste affermazioni di minimalismo pratico venissero dal cuore.
Per me avere tanti vestiti è sempre stato un problema. Non riesco mai a spiegare bene come mi sento sulla questione dell’armadio pieno di vestiti e scelte da compiere tutte le mattine. Provo a farvi un esempio per assurdo: è come se improvvisamente qualcuno vi imponesse di comprare e accudire cinquanta statuine di troll, scegliendone una al giorno che sia adatta all’occasione. Non potete certo andare a fare la spesa con in mano la statuina del troll che va a pesca o andare a pranzo dai suoceri con la statuina del troll che si gratta il sedere, dovrete portare la statuina del troll sorridente che pasteggia in simpatia. Immaginatevi una vita così e avrete una lontana visione di cosa voglia dire per me avere un armadio pieno di vestiti. Appena lasciato il lavoro in azienda, dove dovevo andare con un vestito adeguato al mio ruolo, ho gioito per l’addio a un armadio da otto ante strapieno. Oggi per me due ante sono più che sufficienti. Ho pochi vestiti, scelti accuratamente su comodità e piacere, così quando apro l’armadio non spendo più tempo prezioso a decidere cosa mettermi quel giorno. Per il giorno metto questi tre, per uscire questi e per le occasioni speciali un vestito. Capita che diventino quattro, cinque o che li sostituisca ma non capita più che diventino quaranta a stagione. La cosa mi fa stare infinitamente bene e mi sento leggera.
Questo minimalismo nell’abbigliamento, però, ha voluto dire essere additata come matta o povera per vent’anni, venendo poi riconosciuta come minimalista di recente, ma sempre con l’asterisco “forse povera”.
Il minimalismo, questa corrente recente, penserete, ti ha finalmente riabilitata! No, ma non che mi interessasse in tutta onestà. Non dipendo così tanto dal giudizio degli altri da quando ho superato la fase edipica.
Agli altri invece pare interessare moltissimo, per la maggioranza il quanti vestiti hai è al pari con la cilindrata dell’auto. Su entrambe, cascano male, anche perché auto con minore impatto ambientale non le fa certo la Maserati.
Così, negli anni, chi non capiva e propendeva per la spiegazione “povera” si è prodigato di consigli. Tra i migliori che ho ricevuto, c’è stato un “Sai, per avere un po’ più di vestiti puoi andare al mercato e trovi anche delle cose da cinque euro. Ogni volta ne prendi una e piano piano ti fai un guardaroba”. Accidenti… grazie! Non ci avevo pensato! Scusa se non mi fermo ancora a conversare con una persona così altruista e delicata, devo correre a cercare un mercato aperto, voglio il mio primo puzzolente vestito in poliestere subito!
Queste sono anche le occasioni in cui mi chiedo cos’ha nel cuore la gente: io ne ho riso, perché la gentildonna non aveva i mezzi per capire che i miei vestiti sono tutti di alta qualità e non vengono dalla Cina. Mi ha vista più volte con gli stessi e ha pensato solo che fossero pochi. In un mondo di fast fashion in cui comprano le magliette a cinque euro e le buttano dopo due lavaggi, per lei non praticavo il minimalismo ma la sciatteria. Io ci ho visto però un altro problema in questo modo di pensare e di esternare consigli non richiesti, neanche fosse Enzo Miccio con il completino tartan ristretto. Se fossi stata una persona davvero bisognosa, immagino che questo suggerimento non mi avrebbe fatta ridere. Magari, per quel che ne poteva sapere, lo stava dicendo a una persona che con cinque euro deve fare la spesa. Sicuramente la gentildonna avrebbe bisogno di un po’ di minimalismo mentale in modo da eliminare certe idee prima di dargli voce, come altri guru del minimalismo.
Il minimalismo è sì la tendenza a ridurre al minimo gli oggetti posseduti ma nell’ottica di quello che mi serve e che mi rende piacevole la vita. Sono minimalista nel momento in cui possiedo solo quello di cui ho bisogno e mi piace. Potrebbe essere tanto o poco nella visione di altre persone.
Se invece divento minimalista in tutto e non per bisogno contingente, sto facendo una violenza a me stessa. Per esempio, ho un numero che non conosco di libri, tanti. Ho librerie in studio, nello studio del mio compagno, in sala, nella dispensa e pile di libri qui e là. Ogni tanto ne elimino alcuni ed è un grande sforzo. Ho una quantità di oggetti da cucina che non è quella di una famiglia normale, ma va bene così, perché la cucina è una passione di entrambi gli abitanti della casa. Vivremmo malissimo con una pentola, una padella e un mestolo. Il minimalismo deve basarsi su una scelta oculata dei propri interessi, della propria vita. Poi magari ho solo cinque vestiti e va bene così.
Non vorrei tralasciare il minimalismo nell’arredamento, un terreno ancor più pericoloso. Il minimalismo non è un dovere ecologico. Sì, siete su un sito che parla anche di sostenibilità, lo scrive una persona che all’argomento tiene tantissimo, e vi posso garantire che il minimalismo nell’interior design non ha nulla a che fare con l’ecologia e la decrescita. Intanto il minimalismo da copertina è estremamente costoso e scomodo. Sul costoso concorrono sia i materiali che la firma, a volte è giustamente costoso e a volte non lo è. La semplicità è una lunga e costosa ricerca, come il razionalismo. I risultati pratici però non sono entusiasmanti. Universalmente, questo minimalismo delle forme pulite è sempre scomodo. I divani squadrati sono belli da vedere ma comodi come il tavolo da autopsia. Ve lo dico perché al momento ho un’opera dell’ingegno di Tom Dixon che ci sfascia la schiena e prima o poi dovremo cambiare. Ho ovviato aggiungendo cuscini – tanti- e anche un telo perché i gatti ci pisolano, ci camminano, tentano di farsi le unghie. Dopo questi interventi ergonomico-gattofili è diventato un divano boho-chic, o una montagna di cose. Dipende sempre dal punto di vista.
Il minimalismo nell’arredamento è finto. Ho visto tanta gente arredare con le migliori intenzioni per ottenere l’effetto ospedale deserto che piace tanto. Ma, se in casa ci vivi, non ci riesci. Oppure ci riesci con grandi sforzi e allora non è più la casa funzionale a te ma tu in funzione della casa. La dura realtà è che la casa minimalista richiede più attenzioni di quella massimalista. La via migliore è che la casa assomigli a sé e assecondi le proprie esigenze. Un artista minimalista è rarissimo.
Nonostante ciò, ogni tanto mi capita che un’amica venga rapita dagli alieni Decluttering & Minimal e cerca allora di illuminarmi con le mirabolanti trovate della guru Marie Kondo, o con qualche altro guru del minimalismo. Il mio cervello in quei momenti indica le uscite di sicurezza urlando “Vengono fuori dalle pareti, vengono fuori dalle fottute pareti!” (cit. Aliens) perché so che ora arriverà la frase fatidica della novella minimalista “Non hai troppi libri? Guarda quella libreria, è strapiena!”. Mmmh. Ci conosciamo? Sì? Guardi, a me non pare… adesso devo andare, mi scusi!
Fuggo, perché so che poi parte la tiritera della Kondo sulle biblioteche pubbliche e gli ebook. Certo. Forza, andate nella vostra biblioteca vicino a casa o sul Kindle store e trovatemi tutti i tomi dei Quaterni inquisitionum. (Cosa me ne faccio? Sto scrivendo un romanzo per il mio cassetto, è un lettore molto esigente).
Comunque, dove eravamo prima che divagassi? Vengono illuminate dal fulgore delle promesse di leggerezza di qualche manager milionaria come la Kondo, imparano a riordinare le mutande per colore e vengono possedute da i due alien che gli fanno credere che quelle mutande riordinate per colore gli stiano cambiando la vita. Quindi vogliono farlo fare anche a me, perché mi vogliono bene.
Una delle ultime mi ha detto una frase terrificante “Poi quando ho finito qui, vengo a casa tua e togliamo tutti quei soprammobili, non ne hai bisogno”. Mmmhhhh… Signora no in casa, lascio messaggio? Signora fuori fino a novembre, no può farla entrare, signora non vuole. Ciao, io dico che passata. Ciao.
Per inciso, non ho soprammobili. Ho cose che mi servono, che a volte sono appoggiate sui mobili. Sì, anche il binocolino da teatro della prozia Vania, perché ci guardo i germogli che spuntano – e non vedo l’ora di essere una vecchia signora per usarli a teatro!
Molti anni fa sono stata a Disney Paris. Sì, non era ancora cominciato il periodo di decrescita estrema. Mi sono divertita e ho girato tutto il giorno con in testa le orecchie e il fiocco di Minnie. Non mi interessa l’interpretazione psico-socio-freudiana della famiglia Disney, dal mio punto di vista Paperino è un single a cui sono stati fatti adottare tre bambini, lo trovo assolutamente di buon auspicio per il futuro. L’intera famiglia Disney ha parentele squinternate e assomiglia molto di più alle famiglie di oggi e a quelle umane, che non al concetto catto-bigotto di alcuni. Come disse un mio professore di antropologia: “Non parlate mai a un antropologo della famiglia tradizionale perché nel mondo non esiste”. In più, Paperina, Minnie, Clarabella e Nonna Papera sono molto più sveglie dei rispettivi fidanzati e, guarda un po’, sono donne autonome. Fine della parentesi. Comunque, quelle orecchie di Minnie con tanto di fiocco le ho portate a casa e restano il ricordo di una vacanza divertente. Ad ogni cambio stagione, le vedo nel contenitore dei cappelli, sorrido e le tengo. Negli anni le ho usate per carnevale e le ho indossate per far divertire delle bimbe.
Ieri stavo aspettando che si collegasse un’amica per una videochiamata. Ero lì con trucco e parrucca perché con il lockdown ci siamo stufate di fare chiacchierate sbracate in tuta. Abbiamo detto: adesso sfoggiamo parrucche e ci vestiamo bene, aperitivo online. Cosa non si fa per sopravvivere. Perciò ero lì nel mio look “discoteca anni novanta”, con i brillantini che mi impiastravano mezza faccia e una parrucca a caschetto che sembravo Elton John travestito da Cher, quando ho pensato “aspetta che mi metto le orecchie di Minnie, sono completamente fuori contesto”. Sono andata a prenderle e, accesa la cam, la prima cosa che ho sentito è stata “orecchie” e una risata di cuore.
Quando ho deciso di non buttare o donare questo oggetto, non l’avevo programmato. Quanto valgono delle bambine felici e delle risate? Per me tantissimo. Quindi le orecchie restano anche se per le regole della Kondo andrebbero buttate via. Chissà che usi avranno in futuro.
Il minimalismo è una questione squisitamente personale. Ho solo quattro vestiti, ma sei cappelli, le orecchie di Minnie e altre cose strane. Ho più collane che vestiti, non mi interessa avere solo “una collana che ti piace tantissimo”, perché questa è una scelta emozionale che faccio volentieri ogni mattina, al contrario di quella dei vestiti.
Nell’attuale parlare di minimalismo ci possono essere esperienze, fatti raccontati che ci ispirano e metodi per tenere le cose in ordine che vanno bene per noi. Ma non può esserci un minimalismo universale, in cui si butta tutto quello che secondo altri è superfluo. Secondo le loro regole che ritengono essere universali. Se la signora Kondo ha solo tre libri come dice, buon per lei. Ma lei deve solo parlare di come mettere in fila le mutande, senza nulla togliere a questo proficuo business. Io invece devo studiare per scrivere su diversi argomenti, se avessi solo tre libri sarei disinformata o ignorante. Se scrivessi di germogli senza avere almeno dieci germogliatori su cui lavorare davvero, sarei un’approssimativa o una di quelle che scrivono copiando dal web.
Non c’è mai una regola universale e siamo belli per questo. Probabilmente io a ottant’anni avrò ancora le orecchie di Minnie, con buona pace del minimalismo.
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