Qualche giorno fa il mio telefono ha iniziato a funzionare male. Dopo un po’ di verifiche, abbiamo appurato che si trattava di due app sviluppate per un sistema diverso e convertite nel mio, due app proprietarie di due clienti e che mi sono essenziali per lavorare. Ho dovuto piegarmi a un nuovo cellulare con sistema operativo diverso e devo ammetterlo: il nuovo cellulare è veramente bello. Il mio era bellissimo cinque anni fa, lo sarebbe ancora per un utilizzatore normale, ma per lavorarci era diventato obsoleto.Il nuovo va velocissimo, si sincronizza subito con tutto quel che mi necessita. A questo punto chiunque penserebbe: quindi stai utilizzando quello nuovo.
No.
Sono tre giorni che metto davanti una serie di scuse per non farlo, la principale è che con il vecchio sistema operativo so già dov’è tutto quello che mi serve e… hei, sono una persona impegnata! Non ho due ore per guardare dei tutorial sul telefono nuovo e capire che logiche usa, magari nel fine settimana. Non ho quindici anni, non ho tutto questo tempo, devo rispondere al volo e continuare a lavorare! Questa è la mia scusa.
Che cosa mi sta trattenendo dall’essere felice?
Ora è domenica sera. Nel fine settimana ho trovato il tempo per cucinare e cenare con calma, per guardare un film e due stand up comedian, per leggere, giocare con i gatti, lavorare a maglia, chiacchierare con il mio compagno, con un’amica… e il telefono è ancora lì, nell’assetto base e senza tutte le app e i dati che mi serviranno per lavorare da domattina. Ora sto scrivendo un post per il blog, un’altra cosa che mi piace moltissimo, facendo finta intanto di considerare il telefono solo perché ne sto parlando.
Cosa mi sta spingendo a passare un lunedì infernale con un telefono vecchio che non funziona e uno nuovo senza nemmeno i contatti? Me lo sono chiesta seriamente. Non si tratta solo di procrastinazione, anzi, non è una mia caratteristica, di solito se c’è qualcosa di spiacevole lo faccio per primo, “Eat the frog first“, dicono gli inglesi. Il rospo lo butto giù per primo, è da anni la mia modalità di scelta delle priorità, quindi non sta qui il problema.
Non è nemmeno avversione alla tecnologia: di sicuro mi dà noia cambiare il telefono ogni tot solo perché i sistemi operativi nuovi non sono adattabili ai telefoni vecchi, di sicuro mi pesa dover rottamare una cosa difficilmente riciclabile, ma riesco sempre a darlo a qualcuno che lo può utilizzare ancora per anni. In più sul telefono io ci tengo una grossa parte di lavoro e materiali, così da non scarrozzarmi sempre un portatile. Mi è utile, estremamente utile. Quindi? Perchè non sistemo il telefono nuovo e passo un lunedì di lavoro sereno senza impazzire con il telefono vecchio o cercare di aggiornare male il nuovo tra un lavoro e l’altro? Alla fine avrei solo dei vantaggi nel configurare ora il telefono nuovo, pronto per il lunedì. Magari addirittura avrei potuto farlo il giorno in cui l’ho acquistato, evitando di trascinarmi per altro tempo il vecchio telefono reso lentissimo dalle due app.
La risposta può essere che ho paura di essere felice?
In parte lo è. Il vecchio telefono l’ha fatto un’azienda che adoro, ha un sistema operativo che amo e che negli ultimi diciassette anni è stato il mio preferito, versione dopo versione. Il vecchio telefono è la mia zona di comfort. Ok, funziona male, ma so come funziona male: quando si blocca devo riavviarlo. Ora, capite anche voi quanto può essere idilliaco lavorare così: mentre stai lavorando si blocca e devi riavviarlo. Telefonate a singhiozzo, email riscritte tre volte… Però io so esattamente cosa fare: si blocca e lo riavvio. Una noia, ma una noia che conosco bene. In fondo al tunnel invece c’è una luce: il nuovo telefono. Ma io non vado verso quella luce perché, pensandoci bene, comporterebbe: il rischio di non capire al volo quel sistema operativo e sentirmi una quarantenne che scrive buongiornissimo su Facebook (ok, non mi succede, ma ho questo timore latente che un giorno potrei finire così); non potrò più affermare con soddisfazione che il sistema operativo che piace a me è il migliore di tutti visto che ora sono obbligata ad usarne un altro; ho paura di dover passare almeno cinque ore a installare varie app e far sincronizzare cose con il desktop, cose che magari non avranno voglia o possibilità di sincronizzarsi.
Cherofobia, la paura di essere felici
Così per giorni, con in mano la soluzione di tutto il problema, ho continuato invece a utilizzare il vecchio telefono riavviandolo quella ventina di volte al giorno. Perché essere felici delle volte fa paura. Pensate che c’è anche una parola apposta, cherofobia, la paura di essere felici. La maggior parte dei cherofobici ha paura di essere felice per il timore che quella felicità finisca presto con un evento negativo. Ora, pensiamoci bene: è meglio essere sempre infelici oppure felici e infelici a fasi alterne? La seconda, dai.
Uscire dalla nostra zona di comfort – intesa come zona in cui ci sentiamo sicuri sebbene sia orrenda, come può essere per esempio un matrimonio finito ma trascinato per vent’anni – è maledettamente difficile. Anche se sappiamo che fuori dal tunnel ci sono prati verdi, sole e unicorni colorati, noi restiamo nel nostro tunnel buio, umido e muffo perché è l’ambiente che conosciamo bene. Noi restiamo nel nostro tunnel buio perché in quel tunnel ci sappiamo vivere, ne conosciamo tutti i difetti e abbiamo imparato a sopportarli. In questo modo, si verificano le condizioni per le quali ci fa paura l’essere felici: quello che ci fa davvero paura è lasciare la condizione esistente, cambiare, essere pienamente noi stessi o semplicemente alleggerire la nostra vita da qualche incombenza.
L’accettazione sociale e familiare
Quante donne e uomini si rinchiudono dentro “lavoretti”? Piccoli hobby approvati socialmente e dalla famiglia, che non fanno paura a nessuno, non cambiano l’ordine delle cose, non destabilizzano. Ci sono artiste dietro pedanti lavori di decoupage (dai, smettetela di incollare tovaglioli di carta agli oggetti, potete fare di meglio), matematici dietro complicati lavori all’uncinetto, architetti dietro a nuovi modi di progettare maglie ai ferri, così come ci sono inventori dietro appassionati di fai da te che ogni lunedì mattina torneranno in un ufficio grigio a fare il solito lavoro.
Quanti si rinchiudono dietro la paura di provare qualcosa di diverso, al di là della zona di comfort? Molti, la maggioranza sarà sempre così. Liberarsi è un percorso ostico, difficile, pieno di incognite. Io che sono una persona libera, che mi considero tale per tutte le scelte che ho fatto dettate solo dalla mia volontà e qualche volta ottenendo il biasimo di alcuni gruppi sociali… anche io ho le mie zone di comfort. Non sono dannosissime, le maggiori e veramente dannose le ho eliminate anni fa ma qualcuna piccola ancora rimane, cose con cui posso convivere serenamente senza doverle per forza scardinare. Ma le grandi, quelle sì, va fatto, vanno eliminate, altrimenti ci si trova a vivere in un immenso tunnel falsamente confortevole mentre la felicità, quella vera, resta là fuori.
Gli atteggiamenti tipici della paura di essere felici
Uno degli atteggiamenti classici della paura di essere felici, purtroppo molto diffuso, è quello di fare opposizione a qualunque soluzione. Per esempio, incontro spesso persone con rapporti di coppia non più soddisfacenti, relazioni trascinate per anni con reciproca noia e so che, nonostante mi chiedano soluzioni (le chiedono a tutti) lo fanno solo per controbattere a suon di obiezioni che definiscono “realistiche”:
- i figli ne soffrirebbero (ma non soffriranno di più a vivere con due persone reciprocamente annoiate? Non gli starai dando una visione molto brutta della vita di coppia, visione che influenzerà la loro vita futura?);
- con un solo stipendio come faccio? (beh, ci sarà anche una persona in meno, dai);
- non voglio dare un dolore ai miei genitori (se ti vogliono bene non sarà un dolore, lo sarebbe vederti infelice tutta la vita);
- stiamo pagando il mutuo della casa (le case si comprano, si vendono, una soluzione si trova sempre);
- non troverò mai una persona migliore di questa (ah, bella idea: stai con una persona che non ti piace per la paura di trovarne altre che ti piacciono di meno? A parte che si può stare anche da soli ed è un’ottima esperienza, ma non sarà che è proprio l’autocommiserazione a costituire la tua zona di comfort? Bel guaio).
E così via. Opposizioni a piovere, sono tenacissimi, non li potete battere. Qualunque soluzione troviate, arriva il no, c’è l’ostacolo “realistico” che loro conoscono benissimo.
La paura di essere felici con le scelte più grandi della vita
Molti lo fanno anche con il lavoro. Non conto le volte che mi hanno detto “Faccio l’impiegato per ripiego”. Questa è la conversazione tipo:
– Cosa volevi fare invece?
– Mi piace molto lo yoga, ho anche i diplomi per insegnare e vado tutti gli anni in India per perfezionarmi
– Quindi potresti fare l’insegnante di yoga, no?
– No c’è troppa concorrenza e poi non so se sono all’altezza
– Secondo me ci sono più impiegati che insegnanti di yoga, quindi c’è meno concorrenza nello yoga che nel lavoro che fai
– No, e poi dovrei aprire una partita iva o un’associazione e io non me la sento di mettermi in proprio
– Potresti lavorare per qualcuno, per esempio una scuola, invece di aprirla tu
– No, vicino a me non ce ne sono
– Sei sicura? Ne nascono a ogni stagione ormai, c’è una grande ripresa dello yoga.
– No, non nella mia zona e poi ci sono molti pregiudizi, sai, il prete, la parrocchia…
No no no no. Potrei andare avanti all’infinito, dall’altra parte troverei sempre delle obiezioni. Ma non sono obiezioni a me personalmente, sono obiezioni all’essere felici.
Essere felici fa paura, mentre rimuginare e autocommiserarsi nella propria infelicità è confortevole: sanno come farlo, conoscono i risultati e non ci sono rischi. Magari arriva anche un po’ di attenzione da chi non conosce ancora il giochetto ed empatizza con la poverina che vorrebbe fare l’insegnante di yoga ma proprio non può (salvo rendersi conto dopo un po’ che non vuole e punto).
Come si supera la paura di essere felici?
A questo punto voi vorreste la soluzione. Ok Grazia, perché abbiamo paura di essere felici e cosa ci fa fare questa paura l’abbiamo capito, ma qual’è la soluzione?
Non ce l’ho. Io sono qui con voi, sono quella che ha i due telefoni sulla scrivania. Mi sto avviando verso un lunedì infernale in cui non troverò nessun documento appena mi allontano dal desktop, in cui farò telefonate a singhiozzo con l’obbligo di riavviare il telefono… ma non provvedo: in fondo in fondo spero con tutto il cuore che accada il miracolo e il mio vecchio telefono riprenda a funzionare da solo. Magari che qualcuno nella notte rilasci una nuova versione del vecchio sistema operativo che vada d’accordo con le due app dei clienti. Insieme a me vivono di speranze simili quelli che attendono che un bellissimo lavoro si materializzi davanti a loro o gli suoni alla porta senza aver fatto nulla, quelli che non hanno mai studiato musica ma sognano di diventare cantanti andando a un reality e quelli che attendono un principe azzurro o una ricca e bellissima fotomodella che li porti via da matrimoni esauriti. Non ci succederà.
Soluzioni concrete per superare i freni della paura di essere felici
La soluzione è solo guardare bene in faccia la felicità e andarle dritti incontro. Se sul percorso si inciampa, va bene, la chiameremo esperienza e saremo comunque un pezzo più avanti.
Per me la soluzione è più facile: finisco di scrivere il post e mi dedico a capire il nuovo telefono, così comincerò il lunedì con gli strumenti che mi servono. Là fuori, potrebbe farmi compagnia una futura insegnante di yoga che inizia a rispondere “Sì ci penso, vediamo quanto costa affittare un’aula e cominciare a tenere lezioni il sabato pomeriggio”. Magari si unirà anche un marito che dirà “Domani chiamo la banca per sapere come si può vendere la casa prima di finire il mutuo” o una fidanzata che penserà di trovare le parole migliori per dire che hanno diritto entrambe di essere felici, anche se vorrà dire cambiare giro di amici.
Essere felici fa paura, è vero, ma a me farebbe più paura una settimana di strumenti che non funzionano, oppure una vita trascinata nell’incomprensione di coppia oppure la morte cerebrale in un lavoro noioso. E a voi?
Il primo che scrive “Però a volte le situazioni vanno prese nel loro contesto e non sempre è possibile fare…” deve andare alla lavagna e scrivere 200 volte “Sì, io decido di essere felice ora. Il come si vedrà, ma intanto decido di superare la zona di comfort e dare un’occhiata a quello che c’è la fuori”.
Nota
Ho finito di settare il telefono domenica sera tardi, dopo aver terminato di scrivere questo post.
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