Amor fati è un’espressione legata alla filosofia stoica, letteralmente amore del fato, l’amare il fato. [1] Non è la semplice accettazione del destino o fato, il rassegnarsi a ciò che succede, o ancora peggio rassegnarsi a un destino che si suppone disegnato da un’entità superiore. E’ più profondamente l’amare incondizionatamente il proprio fato dopo essersi impegnati in scelte e percorsi personali, cercando la strada verso la verità, la propria personale e unica strada nel mondo. Una ricerca che può portare a momenti di caos, a momenti d’ombra, a periodi in cui tutto sembra essere sbagliato, specialmente se le decisioni passate e quello che abbiamo lasciato sembrano una perdita incolmabile.
Mi sono ritrovata in questa espressione, amor fati, in un momento in cui stavo rimettendo tutto in discussione e l’amor fati mi ha riportata sulla strada in cui pensiero e libertà danno vita al destino, alla nostra vita com’è ora. Un destino che non sempre è immediatamente comprensibile, che a volte sembra anzi l’opposto di quello che cercavamo e che invece è proprio quello che deve essere: perché il destino è l’espressione, la realizzazione dei nostri desideri più profondi, non di quelli che amiamo mostrare.
Mi spiego con un esempio: avete mai notato quante persone vorrebbero fare lo scrittore e fanno fatica a scrivere mezza pagina al giorno, a dedicarcisi più di qualche minuto? Ufficialmente vorrebbero fare gli scrittori, lo raccontano anche a sé stessi. In verità vogliono fare altro ed è ciò in cui si perdono invece di scrivere: il niente, chiacchierare sui social, guardare la tv, pitturare casa. Qualcuno di loro si ritroverà nullafacente, qualcun altro imbianchino, ma tutti avranno indubbiamente compiuto il loro destino, quello che desideravano nel più profondo, con più forza. Accettare il compimento del destino, capirlo, è amor fati. Fare pace con il fatto che ci si è creati le condizioni per fare quello che stiamo facendo e vivere come stiamo vivendo è fondamentale per essere felici.
Per questo serve amor fati, non il fatalismo, ma l’antidoto al fatalismo: sforzarsi il più possibile di agire, di essere coerenti con se stessi, di perseguire i propri ideali e accettarne però infine la realizzazione così com’è, perché, come scriveva Goethe, “nel nomento in cui uno si impegna a fondo, anche la provvidenza allora si muove. Infinite cose accadono per aiutarlo, cose che altrimenti non sarebbero mai avvenute.“[2] Queste cose a volte non sono immediatamente comprensibili. Per me è stato così.
Alle 9.00 di un giorno lavorativo della scorsa settimana c’era il sole. L’ho visto dalla finestra del mio studio, ero già al lavoro perché in genere mi alzo alle 4.30 e alle 5.30 sono già alla scrivania, ma solo perché a me piace così, nessuno mi obbliga. C’era il sole quella mattina e mancava da un po’ di giorni, così sono uscita per una passeggiata nei boschi qui attorno. Nessun senso di colpa. Lavoro per obiettivi, non a ore: se le mie scadenze lo permettono, posso fare quel che voglio. Se per un po’ di tempo non lo permettono, mi rimetto a ragionare su come sto gestendo il tempo e trovo un sistema diverso.
Nella passeggiata dell’altra mattina, mentre osservavo i piccoli cenni di primavera che spuntano tra le foglie secche del bosco che sembra ancora addormentato, ho pensato che anche la mia avventura è cominciata un po’ così, con dei piccoli gesti che nessuno notava. Proprio come il bosco che in questo febbraio sembra ancora spoglio e silenzioso, ma, guardando da molto vicino, è un turbinio di nuove vite, colori e profumi. Di anemoni che spuntano tra le foglie secche dell’autunno.
E’ stato circa quindici anni fa che ho pensato che la mia vita non andasse bene com’era, che non ero felice e una serie di doveri mi stavano impedendo di vivere, di fare della mia vita qualcosa di divertente e felice. Mi sono fermata, ci ho pensato e in un agosto torrido ho lasciato quelle che per gli altri erano sicurezze, status e responsabilità. Non mi sono mai tirata indietro davanti alle responsabilità, ma non volevo che le responsabilità fossero quelle di fare la factotum della preside di facoltà invece che la ricercatrice, o di interpretare la favola borghese della villetta alle porte di Milano.
La decisione non all’improvviso, ma analizzando le mie sensazioni. Una delle sensazioni più forti e che stranamente sta tornando nell’ultimo anno, era quella di essere sopraffatta dalle cose, dagli oggetti. Per condurre quella vita dovevo avere delle cose, tante cose, come tutti gli altri. Queste cose però mi soffocavano, spesso me le dimenticavo, perché ovviamente non ne avevo bisogno. Avete presente quando sistemate la cucina e salta fuori la granitiera comprata l’anno prima e utilizzata un paio di volte? Ecco, io ero in questa situazione con tutti gli aspetti della mia vita. Non sapevo nemmeno più cosa c’era nei cassetti, quali vestiti avevo – e quanti comprati e mai messi! – ma sapevo benissimo che ero stanca, davvero stanca, di tutto quel correre e lavorare e spendere.
Ho cominciato a riordinare i cassetti e buttare via quello che non serviva. Un gesto meccanico per lasciar scorrere i pensieri. Un cassetto al giorno, una tappa al giorno. Senza una meta precisa, decidendo man mano cosa andava meglio per me, dove dovevo dirigermi.
Tra tutti i cambiamenti che sono seguiti, per me il nodo più grande è stato rinunciare alla ricerca. Mi occupavo di linguistica informatica e linguistica computazionale, tra i primi in Italia. Ma ho dovuto lasciare la ricerca, perché dopo anni di impegno e riconoscimenti di quello che facevo e valevo, continuavo a scontrarmi quotidianamente con concorsi palesemente truccati, figli-di e parenti-di che bisognava passassero prima, perfette ignoranti assegnatarie di borse di studio. Il set completo di un mediocre articolo sui cervelli in fuga, solo che io non avevo intenzione di fuggire se non simbolicamente.
Non si può davvero comprendere la frustrazione dell’ambiente accademico italiano finché non la si sperimenta, non è descrivibile. Ho lavorato in altri posti considerati terribili, da enti pubblici alla televisione, ma nessuno di questi ambienti è mai riuscito ad arrivare nemmeno lontanamente alla porcheria di raccomandazioni e baronato a cui arriva l’università italiana.
Della ricerca amavo tutto, fino a oggi non ho mai trovato un altro lavoro che amassi così tanto, perché non era lavoro: era la mia vita. Per me entrare ogni mattina nella sezione dei Rare Books della British Library, riservata solo ai ricercatori accreditati, era la cosa più bella del mondo. Interagire, parlare, discutere con chi seguiva i miei stessi studi era appagante in un modo che non ho mai ritrovato negli scambi con i colleghi di oggi, pure interessanti. Creare nuove funzioni per un software di analisi dei testi era una soddisfazione immensa. Al punto che ero disposta a pagare io il server, perché l’università italiana con il suo moderno laboratorio multimediale non capiva la necessità di acquistare un server indispensabile per le mie ricerche – ma finanziava una raccomandata bellona e mezza nobile per assistere a dei corsi Adobe da tremila euro cadauno, per non capire assolutamente niente di quello che le veniva spiegato.
Ma non importava, stavo facendo grandi cose, mi piacevano, ero felice quando lavoravo sui miei progetti e il tempo era sempre troppo poco, lavorando perdevo completamente la cognizione del tempo.
Di uno dei miei progetti se ne sono accorti all’Università di Tokyo e abbiamo iniziato a collaborare, quasi in sordina. L’università italiana fino a quel momento aveva pensato che fossero stupidaggini irrilevanti rispetto al loro blaterare a vanvera su orrendi romanzetti del settecento inglese. Ma un giorno si sono accorti che per questa mia collaborazione potevano ottenere dei finanziamenti, così tutti i miei contatti e il lavoro già svolto sono stati prelevati in blocco e assegnati alla raccomandata del momento, l’ultima arrivata. Assistita naturalmente dalla Bellona-mezzanobile, amica della preside di facoltà, che non sapeva nemmeno l’inglese, la stessa dei corsi Adobe di cui sopra. La stessa che senza sapere l’inglese (e non dico male, ma proprio per nulla) mi era passata davanti in un concorso con scritto e orale in lingua inglese, un concorso di linguistica informatica. Un genio dell’informatica? No, sapeva a malapena accendere un computer. Fare ricorso? Impossibile, chiunque faccia un ricorso al Tar è automaticamente fuori da tutte le università italiane, nessuno vuole i piantagrane. E’ una delle prime cose che ti spiegano senza troppi giri di parole. Ringrazia per quello che ti viene dato, chiudi gli occhi su tutto il resto.
Un paio di anni dopo, io e Bellona-mezzanobile ci siamo ritrovate a insegnare nello stesso master e ogni volta che in classe affrontavo qualcosa che lei doveva aver già spiegato, mi trovavo invece a doverlo spiegare io da zero. Un giorno ho chiesto spazientita agli studenti se ne stessero approfittando, perché non era davvero possibile che Bellona-mezzanobile non avesse spiegato nemmeno quella nozione semplicissima di base. La loro risposta: “La dottoressa Bellona-mezzanobile legge il capitolo prima di venire in classe… poi ce lo racconta”. Trattandosi di informatica, è un metodo quantomeno creativo, non c’è dubbio. Insegnare un software di animazione senza saperlo usare e leggere il capitolo da spiegare prima di entrare in classe ha superato le mie fantasie e anche quelle degli studenti – che per fortuna erano molto migliori di Bellona-mezzanobile.[3]
Ho iniziato a cedere verso quel punto, a capire che non ce la potevo fare, era proprio il mio cervello che non sopravviveva in ambienti così cretini, annaspava tutto il tempo in cerca d’aria. Inoltre stavano arrivando le nuove leve dei raccomandati, tra cui il figlio di un linguista famoso barone, noto per la velocità nell’appropriarsi di qualsiasi progetto altrui che gli sembrasse quasi finito e in odore di merito.
Prima di decidere di lasciare la ricerca, avevo tentato anche all’estero e vinto il concorso per il PhD alla University College London. Vinto al primo colpo. Quando l’ho comunicato alla preside, dicendo che andavo là, mi ha pregata di restare in Italia. Mi ha pregata di seguire il PhD dall’Italia, dicendomi che si poteva fare, l’aveva già fatto Tizia, che lei con il suo nome importante poteva farmi da tutor, l’università poteva pagarmi viaggi e materiali, qualunque cosa volessi. Così avrei proseguito parallelamente anche con la ricerca qui in Italia, secondo lei era importantissimo quello che stavo facendo con il progetto Tristram Shandy Web. Ridete, ho riso anche io quando ho sentito il nome del progetto, poi ho dovuto fare un’applicazione online, nel 2001, quindici anni fa, che permettesse di processare questo testo in un centinaio di modi diversi. Cose che al tempo si studiavano solo a Londra, Toronto e Tokyo, le uniche tre università che allora si occupavano di linguistica computazionale. Ah e Google, che la linguistica informatica l’ha utilizzata per costruire la ricerca per parole e frasi più famosa del mondo.
Per convincermi a restare nel suo centro di ricerca, la professoressa mi tolse dall’ombra, mi assegnò improvvisamente dei seminari in università, venni omaggiata del rarissimo e onorevole premio di tenere un paio di lezioni al suo posto (l’università è un posto in cui devi ringraziare continuamente per l’onore di lavorare gratis!) e fui portata a un congresso di letterati per esporre le mie ricerche, onore che riservava solo ai professori.
Ma qui ci sarebbe da aprire un capitolo buffo sul fatto che quasi nessuno sentì le mie ricerche innovative… poco prima c’era stata una lite tra una professoressa di Bologna in platea, una ricercatrice che esponeva una tesi piuttosto fantasiosa e la sua mentore che la difendeva, una bagarre finita a parolacce tra le due decane, con epiteti che nemmeno nella curva degli hooligans. Così, quando toccò a me, tre quarti degli spettatori erano a commentare al bar e i pochi in sala erano scossi dall’evento.
Parlai di robotica a un paio di professori incartapecoriti che usavano solo la stilografica.
Comunque, nonostante tutte queste elargizioni di facciata, é inutile dire che dopo sei mesi non si erano ancora visti fondi dall’università per il mio PhD a distanza, i viaggi aerei me li ero pagata io (e non era ancora l’epoca dei low cost) così come dovevo pagarmi i libri, il portatile che al tempo costava 4 milioni di lire, l’alloggio e tutto questo mentre non avevo la borsa di studio a cui invece avrei avuto diritto se mi fossi trasferita a Londra.
Non avevo nemmeno un bidone omaggio di vaselina.
Ero sfinita da anni così, non vedevo un futuro ed ero infelice. Ho cercato un lavoro e ho lasciato la ricerca appena l’ho trovato, cosa che si è verificata quasi subito nonostante gli otto – dicasi otto – colloqui a cui mi sottopose DigiCamere, il centro di elaborazione dati delle camere di commercio. Dai progetti innovativi di linguistica computazionale, passavo a fare i siti internet delle camere di commercio… non so come ho fatto a non pensare all’eroina come soluzione definitiva.
Però quel lavoro mi ha liberata dalla ricerca e le persone erano molto migliori dei progetti. E avevo tantissimo tempo libero, finalmente. I miei studi potevo continuarli da sola, non avevo bisogno di avere attorno l’apparato dell’università. L’anno dopo ho partecipato con dei ricercatori (oggi professori) alla stesura di un libro sull’editoria multimediale, un libro che si usa ancora oggi nei corsi universitari – anche se il perché mi sfugge, io lo trovo ormai vecchissimo. Mi sono auto-dimostrata che dell’università non avevo bisogno, che la ricerca si può fare anche in altri modi.
Da allora ho fatto lavori bellissimi, pieni di creatività e di stimoli a imparare sempre di più. Ho cambiato completamente stile di vita. Ho ridotto le mie esigenze di oggetti a un minimalismo essenziale (quasi). Incontro tante persone interessanti. Raramente incontro dei raccomandati e ho il piacere di poterli scansare, così come i cafoni e gli arroganti. Oggi posso dire di no alle Bellone-mezzenobili e liquidarle con un invito a smaterializzarsi dalla mia vita.
Sono lontana dai raccomandati perché faccio un lavoro che richiede competenze alte, aggiornamento continuo e non lascia spazio per gli incapaci raccomandati (tranne quando devo interagire con le signorine degli uffici marketing e stampa, lì è la fiera dell’amante parcheggiata).
Oggi non incontro più Bellona-mezzanobile che non sa l’inglese e fa il dottorato in letterature straniere comparate. Non incontro più la preside che mi dice di non iscrivermi al concorso per il dottorato quest’anno, perché deve passare Tizio e Caio. “L’anno prossimo lo fai tu“: hanno raccomandati di una levatura tale che l’unica soluzione per farli passare è non far iscrivere gli altri!
Non incontro, in generale, quei tromboni incollati alle loro sedie che hanno fatto dell’università italiana il posto più squallido e stupido di sempre. Perché tra l’altro, a forza di mandare avanti gli inetti raccomandati, vi lascio immaginare quale sia ora la qualità dell’insegnamento universitario. Credo che in parecchie università “analfabetismo di ritorno” potrebbero usarlo come motto.
Non mi è mai mancato il senso dell’umorismo, anche nei periodi più bui. Una cosa che ho fatto prima di lasciare l’università, è stato cancellare dal mio server il progetto a cui la preside teneva tanto. Se volete farvi una risata avevo utilizzato il server di erbaviola.com e al tempo erbaviola.com parlava solo di – uhm – piante innovative. Soprattutto di angiosperme della famiglia delle Cannabaceae. Quindi sul server c’era erbaviola.com che trattava della liberalizzazione dei cannabinoidi e un database di un progetto universitario che veniva proposto ai vari enti e ministeri, in Italia e all’estero, per ottenere fondi.
Non mi sono mai preoccupata della cosa, tanto negli enti e ministeri ci sono gli emuli di Bellona-mezzanobile. Prima che loro riescano a capire cosa c’è sullo stesso server, io ho traslocato su Marte. E infatti sono ancora qui. Comunque, andandomene, ho tolto questo peso dal server. Il server era mio, il lavoro mai accreditato e mai pagato, legalmente potevo farlo. Così ho tagliato il cordone ombelicale che lo legava al loro sitarello strapagato ma disfunzionale. Lo ammetto, in conseguenza a questo ho avuto attimi di puro godimento nei due anni successivi.
Il primo quando hanno ripristinato dei link al vecchio database e per mesi il loro progetto ha linkato la liberalizzazione della canapa con varie gradazioni di THC. [4] Poi quando mi hanno chiamata diverse volte chiedendomi di ripristinare il lavoro, “anche pagando”. Mi hanno fatta chiamare persino dalla Bellona-mezzanobile, la quale era convinta che il suo charme mi ammaliasse. Potevo sottrarmi alla malìa di essere amica di una mezza nobile decaduta? Sto ancora ridendo.
Alla fine non hanno mai trovato nessuno che gli rifacesse il sistema di analisi computazionale online che avevo fatto io e il progetto è morto dopo essersi arenato sull’uso di un database di terzi. Anni dopo è morto anche quel centro di ricerca, esattamente come quando in agricoltura si seminano i semi peggiori: nel giro di un paio di raccolti il prodotto diventa pessimo, le piante muoiono.
Di me e di quegli anni di studio e ricerca è rimasto solo qualche credit, qualche articolo di linguistica computazionale che vedranno solo gli addetti ai lavori e la prima tesi italiana in questa materia, pubblicata su Confronto letterario. Anni di lavoro per pezzi di carta inutili.
Ho pianto sulla perdita della ricerca. Ma oggi vivo in modo felice e semplice, abbastanza ecologico (impossibile esserlo del tutto), con un lavoro complicato e studi complicati. Mi piacciono entrambi, anche se devo ancora trovare il modo di far pace con il fatto che non ci saranno più giornate di studio alla British Library e che probabilmente ora non potrei nemmeno entrarci. Amor fati. E’ qui che va esercitato, è qui che capisco che è venuto il momento di amare il fato, di rendermi conto che c’era un altro desiderio, molto più profondo, che ha guidato tutte le mie scelte. Che la perdita è molto piccola se fa parte della realizzazione di una vita felice.
In questi anni alcune scelte mi hanno permesso di ampliare i miei orizzonti più di altre e sono scelte che non avrei potuto fare restando dov’ero.
Fare dei viaggi veri di un paio di mesi, zaino in spalla, invece che vacanze di due settimane sulla sdraio. La ricchezza di quei viaggi è una delle più belle della mia vita e la porto sempre con me. E’ stata una crescita e sono tornata con ricchezze indelebili.
Posso viaggiare quando voglio e non solo in agosto, quando invece mi godo queste belle montagne. Posso decidere di girare per il bosco una mattina alle 9, solo perché c’è il sole.
Abito in un posto splendido, scelto oculatamente insieme al mio compagno. Abbiamo la consapevolezza di poter vivere dove ci pare, se cambiassimo idea.
Ho affittato una casa a due piani con giadino, orto e annessi che ci costa un po’ meno del trilocale di tredici anni fa a Cesano Maderno e un decimo del mutuo di dieci anni fa per villa e ufficio a Garlasco. Ed è molto più ‘casa’ di tutte le precedenti, è la nostra liberazione.
Ho dei vicini di casa meravigliosi invece di quelli isterici che avevo in città, perché davvero, vivere in un contesto sociale di belle persone è fondamentale, cambia completamente l’umore e la voglia di vivere.
Produco gran parte di quello di cui ho bisogno: con un lavoro di ore al computer, è fondamentale avere qualcosa di pratico da fare, che sia l’orto o una torta o un maglione. O una passeggiata nel bosco alle nove del mattino solo perché fuori c’è il sole, intanto si raccoglie qualche primula per l’insalata.
Studiare quello che mi interessa, seguendo solo il filo logico, profondamente logico ed evolutivo della mia crescita. Studio nel tempo libero, perché senza trasferte all’estero e senza pendolarismo ho avuto molto più tempo libero, ho avuto voglia di interessarmi di agricoltura naturale, permacultura, agricivismo, botanica, scienze naturopatiche e persino, ultimamente, di medicina tradizionale cinese.
Non c’è più nessuno che mi obbliga a studiare dei melensi romanzetti del settecento inglese, già spremuti da trecento anni di critica letteraria precedente. E ho anche la libertà di dire che fanno veramente ribrezzo e lo facevano già al loro tempo. Sulle edizioni italiane non lo vedrete mai, ma io ho visto le prime edizioni alla British Library: Pamela ha in fondo tre pagine di pubblicità sul dentifricio sbiancadenti per signorine e i bustini stringipancia. Erano gli Harmony del tempo e noi li dobbiamo studiare nei corsi di letteratura di vecchie madame che non sanno nemmeno chi sia Michel Houellebecq o Donna Tartt.
Dopo un po’ che studiavo quel che mi piaceva, seguendo solo il filo dei miei ragionamenti, dopo qualche anno, ho pubblicato dei libri sugli argomenti che mi stavano interessando e gran parte del motivo per cui sono piaciuti è che sono frutto di ricerche serie. Lo stesso metodo di indagine, verifica delle fonti, archiviazione di dati su dati che usavo da ricercatrice, lo utilizzo ora per fare dei manuali o scrivere degli articoli.
La ricerca me la sono portata dietro, ma declinata a quello che mi interessa, che sia lavoro o altri studi. Forse questi libri servono di più, anche se non sono letteratura e probabilmente non varrebbero nulla in un concorso. Ma so che sono serviti a tante persone, cosa che non posso dire dei lavori fatti prima.
Come dicevo, nei primi anni dopo la ricerca ho fatto dei lavori come dipendente, in aziende informatiche e di telecomunicazioni. Non sarei riuscita a mettermi subito in proprio, sia mentalmente che economicamente. Però ogni mattina mi alzavo tre ore prima di uscire, leggevo, studiavo e facevo yoga. Coltivavo un orto sul balcone quando non si sapeva ancora che si chiamassero così. Bisogna iniziare con quello che si ha, io ho iniziato così, con quello che avevo: qualche ora rubata al sonno e un balconcino striminzito in un palazzone brianzolo. Tre ore prima di affrontare il pendolarismo e un lavoro estenuante in un ambiente disfunzionale, stavo vivendo e il lavoro non mi ha risucchiata. Dopo un po’ sono riuscita a smettere anche con questo tipo di vita: non ho più un lavoro dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle non-si-sa (è un orario tipico dell’informatica) e non ho più un superiore ma dei collaboratori.
Questa è stata forse la scelta più criticata: in Italia, lasciare una carriera ben pagata è tabù. Nel frattempo ho visto molti miei amici logorarsi per anni in lavori che amavano ma pieni di conflitti, di arrabbiature, di obblighi nello stare in quei posti la maggior parte della loro vita. Dall’entusiasmo dei primi anni, dall’orgoglio di chi ce l’ha fatta ed è ancora giovane, li ho visti perdere la voglia di fare qualsiasi cosa a parte crollare la sera sul divano e consultare i social appena c’è la terribile possibilità di restare soli con se stessi. Tutto questo lavoro e stanchezza in cambio di un mese di ferie l’anno e di entrate che vanno tutte in beni per la maggior parte non necessari. Spesso beni che servono solo a esistere in un contesto sociale: una bella casa, la zona importante, l’auto, la scuola dei figli, la palestra… una corsa continua a lavorare di più e comprare di più. Ma sono io quella irresponsabile verso se stessa e il suo futuro.
Schiavi del capitalismo peggiore, quello che ti illude di essere libero e di avere un valore in base ai tuoi possedimenti, ogni giorno si alzano per recarsi nei luoghi di lavoro. Io anni fa ho capito di non voler fare quella vita per quarant’anni o più: sì, quarant’anni o più perché l’età pensionabile aumenta di continuo, una media di due anni all’anno. Immagino che quando sarà il mio turno sarò troppo stanca e consumata per fare tutto quello che ho in mente. Così lo sto facendo ora.
Oggi amo il mio fato, ora ho compreso pienamente che la perdita più grande mi ha portata a una vita nettamente migliore e a portare positività anche in altre vite.
E mi aspetto un futuro di amor fati, di continuare a costruire e progredire e accettare quello che ne viene, senza addolorarsi per non essere altro o essere altrove, in una comprensione più alta del fatto che ciò che creiamo con impegno, ciò che abbiamo, è quello che volevamo.
Come insegna il maestro zen vietnamita Thich Nhat Hanh “Abbi piena coscienza che tutto ciò che è accaduto e tutto ciò che accadrà si trova in ogni tuo passo, che sempre crescano fiori e frutti nei luoghi che i tuoi piedi hanno toccato.” [5]
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[1] Vorrei qui cogliere l’occasione per l’ennesima dimostrazione dell’inettitudine della gestione italiana di Wikipedia. Vi invito a leggere l’estremamente idiota definizione di amor fati.
[2] Johann Wolfgang von Goethe, Le affinità elettive, traduzione di Henry Furst, Rusconi, 1967
[3] La stilistica e qualche arte retorica satirica richiederebbero qui che io smettessi di chiamarla Bellona-mezzanobile e la chiamassi solo Bellona. Ma data l’ossessione di Bellona per la sua mezza nobiltà, ossessione che esercitava strenuamente sventolando il mignolo inanellato con lo stemma di sì decaduta famiglia, nonché il numero di volte che negli anni le è incidentalmente caduto dai libri lo stesso invito a un matrimonio pseudo-nobiliare su un’isola veneziana, invito su cui distrattamente scriveva appunti (per du anni!) ove sottolineare la sua nonchalance verso la frequentazione di tali casati e fartelo sapere, non vorrei insomma far torto a cotanto impegno chiamandola solo Bellona. Resterà, per merito e impegno, la Bellona-mezzanobile.
[4] E non esisteva ancora il SEO black hat, mi auto-nomino pioniera!
[5] Thich Nhat Hanh, La felicità della piena consapevolezza, Lindau, 2014
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