Dal 2009, quando è uscita la prima edizione di “Scappo dalla città. Manuale pratico di downshifting, decrescita, autoproduzione“, continuo a ricevere email di persone che, leggendo questo libro, riescono a cambiare vita, non per forza uscendo dalla città, ma cambiando forma mentale nei confronti di molti aspetti importanti del quotidiano: il lavoro è quello che citano di più.
Io credo che tutte queste persone in realtà abbiano già dentro ciò che li può far vivere meglio, ma come tutti abbiano bisogno di sentirlo, dargli una forma, un’organizzazione o di sapere che non sono da soli, che si può fare, che c’è chi l’ha fatto.
Mi capita però anche di ricevere email a cui è davvero difficile dare una risposta gentile. Per esempio, a un impiegato a tempo indeterminato che ti scrive “per te è stato sicuramente più facile perché sei partita anni fa quando non c’era questa crisi” …cosa rispondergli? “No, sei solo tu che stai cercando di darti delle giustificazioni al tuo non provarci, ti stai boicottando da solo“?
Non lo capirebbe, le scelte di vita sono lunghi viaggi e l’autocommiserazione è un bagaglio imponente di cui è necessario liberarsi. Ognuno di noi ha una storia diversa e ognuno ha le sue personali difficoltà. E ha le sue risorse per farcela e tenere duro: bisogna tirarle fuori.
Io ho vissuto, lavorativamente, esperienze bellissime come l’essere assunta dall’università cinque minuti dopo aver discusso la tesi, così come esperienze devastanti tipo tre anni e mezzo a contratti precari che potevano cessare da un giorno all’altro, letteralmente, dicendomi “da domani stia a casa perché rientra Tizia“.
Senza nessun aiuto dalla famiglia (non per scarsità di mezzi, anzi, ma per pura presa di posizione contro qualsiasi mia scelta… purtroppo i genitori cretini capitano a molti, me compresa) e con affitto e bollette da pagare da sola, non è stata davvero una passeggiata.
Non ho mai avuto un contratto a tempo indeterminato, pur avendo avuto anche contratti da quadro: andava già di moda sfruttare le sostituzioni maternità. Vivendo da sola, vuol dire davvero vivere come un equilibrista su un filo che improvvisamente cede: per dei mesi sei ricca, poi ti ritrovi da un giorno all’altro a mandare i curriculum e a fare i conti di quanto puoi resistere a casa senza lavorare. Ti ritrovi a dipendere dagli altri, da chi ti dà il lavoro e da chi te lo darà in futuro, a essere sempre gentile perché nell’ambiente ci si conosce un po’ tutti. Per esempio, a non reagire a parolacce quando dai le dimissioni dopo aver accettato un’altra offerta e solo allora ti viene offerto un super contratto a tempo indeterminato con le stesse cifre e benefit dei dirigenti uomini. Motivo: non c’è nessun altro in grado di seguire i progetti che hai in corso. E così ti senti ancora più sfruttata per tutti quegli anni in cui hai buttato le tue capacità e competenze in un sistema che ti ha sottopagato pur sapendo che valevi più di altri che venivano invece stra-pagati.
Quindi cosa posso rispondere quando qualcuno mi fa notare che per me è stato più facile perché non c’era “questa crisi”? Che ho mangiato per due mesi riso in bianco e mele perché mi erano rimasti 42 euro e 27 servivano per l’abbonamento dei mezzi per andare al lavoro? O che sono dovuta stare zitta tante volte, come quando il vicepresidente di una società, per un errore della sua segretaria, si è messo a urlare che le donne devono “stare a casa a fare la calza e crescere i figli“? O di un dirigente di un ente parastatale che ha urlato, davanti a me e un’altra ventina presenti, che non avrebbe più permesso l’assunzione di donne “perché poi stanno a casa in maternità cent’anni“? (Ciao, mi vedi? Ti ricordo che io sarei quella con il contratto che non può stare a casa in maternità… yu-hu, ti ricordi? L’hai già fatto, caro il mio arteriosclerotico isterico!).
Eh sì, erano veramente tempi d’oro!
Cos’è cambiato da allora? Il concetto di stipendio. E arrivo al perché di questa citazione sotto. Tra le tante persone che mi hanno scritto e con cui continuano discorsi davvero interessanti, ultimamente ho ricevuto la recensione di un amico e un invito di un’amica.
L’amico un giorno mi scrive un sms “Il tuo libro mi sta prendendo a calci nel culo ad ogni pagina“. Ed è, credo, una delle migliori recensioni che io abbia mai ricevuto!
Un’amica mi scrive poi: “I discorsi sul lavoro li devi scrivere anche sul blog, se no sembri una mantenuta che sta a casa a raccogliere i fiorellini!“.
Non sia mai! Allora, per la cronaca: non sono mantenuta da nessuno, lavoro e anche tanto, ho solo cambiato tipo di lavoro e atteggiamento nei confronti di questo.
Il discorso che è piaciuto a loro sul concetto di lavoro è quello di seguito, un po’ ridotto. Lo lascio qui, mi pare il giorno giusto, magari qualcuno troverà lo spunto per riorganizzare i suoi pensieri e la sua vita… cambiamo il mondo, una persona alla volta, partendo da noi stessi.
Siamo mossi da un falso mito, quello dello stipendio. Siamo convinti che solo lo stipendio possa farci sopravvivere, che senza saremmo persi, moriremmo di fame e di freddo. Siamo convinti che per avere un chilo di frutta dobbiamo dare in cambio dei soldi, decurtati dal nostro stipendio, proveniente dalla vendita del nostro lavoro a terzi. Non è un grande affare se ci pensate bene. Sul vostro lavoro ci deve guadagnare prima di tutto il vostro datore di lavoro. Sul chilo di frutta che comprate in città ci deve guadagnare il coltivatore, il mediatore, il grossista, il trasportatore, il supermercato. In pratica, tra voi e il vostro chilo di frutta, c’è un esercito da mantenere. Con il vostro stipendio. Non è un grande affare, no? Non starete lavorando per troppe persone?
Negli anni, dopo aver cambiato completamente il mio modo di vivere e lavorare, ho incontrato molte persone che come me hanno cambiato totalmente vita andando a vivere in campagna. Uno degli aspetti che accomunano queste persone è l’aver cambiato radicalmente la propria mentalità nei confronti del denaro e del lavoro. Sebbene eliminare la dipendenza psicologica dall’entità “stipendio” sia difficilissimo, è pur sempre possibile. In fondo, se vi apprestate a leggere un libro sull’autosufficienza, qualcosa in voi è già cambiato.
In pochi però godono della libertà mentale che porta a decidere per una vita parzialmente o totalmente autosufficiente. Di non avere intermediari tra loro e il chilo di frutta. Alcuni di questi arrivano a questa libertà mentale con una folgorazione e scappano immediatamente dalla città, riconoscendo nel sistema di vita cittadino un grosso limite alla loro vita. Altri ci mettono anni, capiscono esperienza dopo esperienza che qualcosa non va, che qualcos’altro si può cambiare e cominciano ad allontanarsi per gradi. Tutti i metodi sono validi ed è giusto che varino a seconda di aspirazioni e possibilità.
(…)
Chi è nato tra gli anni ‘50 e gli anni ‘90 è stato sottoposto all’adorazione di due figure mitologiche: Posto fisso e Stipendio. Mi è capitato di sentir parlare con deferenza del Posto Fisso persino in casa di commercianti decisamente più abbienti dei destinatari di qualsiasi Posto Fisso. In passato, si era abituati a essere fedeli tutta la vita a una stessa azienda. Ora è diverso. In media, sappiamo che dovremo cambiare almeno quattro posti di lavoro in trentacinque anni. Se va bene.
Un italiano su cinque ha cambiato lavoro da tre a cinque volte prima di riuscire a trovare l’impiego che occupa attualmente. E la percentuale sale ancora di più se ci si sofferma sul segmento di chi ha un’età compresa tra 25 e 34 anni (il 24 per cento). Sono questi alcuni dei risultati resi noti dall’indagine “L’Italia del Lavoro oggi. Condizioni e aspettative dei lavoratori” presentata da Ires Cgil nel 2007. Poi è arrivata la crisi e i tagli consistenti.
La precarizzazione progressiva e inarrestabile del lavoro ha portato alcuni, ormai, a cambiare lavoro ogni pochi mesi. In questa ottica, cosa stiamo salvaguardando? La nostra possibilità di svendere competenze e voglia di crescere a un centinaio di aziende prima di raggiungere un’età pensionabile in cui saremo stanchi e abbruttiti dall’insoddisfazione? Insomma, quello che teoricamente perdiamo lasciando il sicuro lavoro di città, ha davvero un valore così alto? Oppure ha il valore che noi gli vogliamo attribuire, sognando a occhi aperti che quel posto di lavoro sarà nostro per sempre, che l’azienda non chiuderà mai e che non troveremo niente di così ‘sicuro’ altrove?
Vogliamo percorrere una provinciale gustandoci il panorama e svoltando quando ci pare, oppure preferiamo l’autostrada che teoricamente va veloce ma che al primo problema ci obbliga a stare lì fermi e vivercelo tutto, dall’inizio alla fine, senza possibilità di uscirne e di svoltare?
(…)
Il discorso sull’abolizione del concetto di lavoro si ricollega in parte anche ai discorsi di decrescita e semplicità volontaria. A livello personale, molti hanno fatto la scelta di dissociarsi dal sistema imposto e di crearsi un lavoro da gestire indipendentemente, senza mediatori. Siamo così abituati a chiamare lo stipendio ‘guadagno’ che abbiamo perso di vista il valore reale delle nostre competenze. Gli stipendi non sono altro che parti infinitesimali del guadagno – quello sì, reale – che ottengono le aziende attraverso la vendita del nostro lavoro. Le aziende hanno contribuito su vasta scala alla fine della valorizzazione dell’individuo e l’apertura delle frontiere, la globalizzazione, ci ha mostrato come sia semplice, in assenza di valorizzazione del lavoratore, spostare la produzione all’estero con lavoratori di analogo valore ma inferiore costo. L’unico fine in questa operazione è il maggiore margine di guadagno dell’azienda, su prodotti che tra l’altro finirà per acquistare il lavoratore il cui lavoro è stato svalorizzato.
Per uscire da questa macchina di svalorizzazione dell’individuo e iper-produzione delle merci, molti hanno scelto di lavorare per sé stessi. In versione molto semplicistica, se so piantare le patate e raccogliere i pomodori, non vado a farlo per venti euro al giorno con una cooperativa. Pianto le mie patate, raccolgo i miei pomodori e invece di comprarli al supermercato me li mangio. E’ la soluzione dell’autosufficienza. In pratica fare della vita il proprio lavoro, una vita in cui coltivare o raccogliere il proprio cibo, produrre i propri vestiti, il carburante e l’energia utile al proprio fabbisogno faccia parte della vita, in cui il baratto sia una forma economica e sociale di scambio, in cui le persone abbiano un valore e ne siano consapevoli quindi non più disponibili a svendere le proprie competenze.
da “Scappo dalla città. Manuale pratico di downshifting, decrescita, autoproduzione” (è una pubblicità? Sì, dei contenuti, delle idee libere. E’ un libro che trovate anche gratis in tantissime biblioteche)
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